20 Feb “Almanacco Trieste 1971 – 2010. L’istituzione inventata”. Recensione del libro di Franco Rotelli. di Carlo Gnetti
di Carlo Gnetti
Per recensire il bellissimo “Almanacco Trieste 1971-2010, L’istituzione inventata”, a cura di Franco Rotelli, pubblicato nel 2015 dalle Edizioni alfa beta Verlag di Merano per la collana 180 Archivio critico della salute mentale (collana che vanta al suo attivo alcuni testi fondamentali per cogliere le nuove tendenze della psichiatria in Italia), partirei dalle questioni che lo stesso volume tratta “a volo d’uccello”. Al di là del meritorio e creativo sforzo di ricostruire, anche attraverso le immagini, una vicenda cruciale nella storia italiana degli ultimi 40 anni, il libro stimola infatti molte riflessioni e lascia aperti alcuni interrogativi. Basaglia e il “dopo Basaglia” Mi permetto di trattare tali questioni usando la prima persona, avendo vissuto l’intera stagione della legge 180 appunto “in prima persona”, come fratello di uno schizofrenico ricoverato per anni al S. Maria della Pietà di Roma e poi protagonista (spesso involontario) di tutto ciò ha fatto seguito alla chiusura del manicomio. Sulla storia di mio fratello Paolo ho scritto un libro, “Il bambino con le braccia larghe” (Ediesse 2010), che aveva l’ambizione di inserire una vicenda personale e familiare nel contesto di un’epoca in rapida trasformazione, che tra l’altro stava cambiando radicalmente l’approccio alla malattia mentale. All’epoca del S. Maria della Pietà Paolo sperimentò l’intero repertorio del vecchio trattamento psichiatrico istituzionale, che va dai letti di contenzione alla camicia di forza, dall’elettroshock all’uso massiccio degli psicofarmaci, che in realtà lo hanno accompagnato per tutta la vita e poi ne hanno provocato la morte nel 2009.
L’almanacco di Franco Rotelli testimonia abbondantemente il clima oppressivo che si respirava a quell’epoca e la fortissima spinta liberatoria che derivò dall’impegno di Franco Basaglia e della sua équipe. Anche Paolo ne fu investito in pieno all’interno dell’ospedale romano. Lui era ricoverato nel padiglione 20 che prima di ogni altro sperimentò l’apertura e poi l’uscita dal manicomio sull’onda dei cambiamenti e delle forti motivazioni che ispiravano operatori, infermieri, familiari (non tutti per la verità) e medici. A guidare l’occupazione di alcune case a Primavalle, e poi la fondazione e la felice esperienza della prima comunità terapeutica a Roma e nel Lazio, c’era un giovane psichiatra-psicanalista basagliano di formazione freudiana, Massimo Marà, deceduto lo scorso anno ad agosto. Uso non a caso questa bizzarra definizione, perché all’epoca i confini tra psichiatria e psicanalisi non erano ben definiti, e spesso tendevano a confondere i rispettivi ambiti di competenza. Almeno questa era la mia impressione.
Paolo visse per quindici anni nella comunità di Primavalle, dove fu trattato come un essere umano, con la sua stanza e le sue cose, e quell’ambiente finì per diventare una seconda famiglia. Non riuscì però ad adattarsi a quelli che erano gli auspici e la stessa ragion d’essere di una comunità “terapeutica”, che cercava – e in alcuni casi riuscì effettivamente – a recuperare e reinserire alcuni pazienti. Lui e alcuni altri tendevano invece a cronicizzarsi nella malattia, e questo ne determinò in qualche modo l’allontanamento, dato che la comunità doveva assicurare un certo turnover. Da allora cominciarono le peregrinazioni di Paolo tra case famiglia, residenze sanitarie assistite, cliniche psichiatriche e piccoli manicomi camuffati che nel frattempo avevano ripreso piede a Roma e nel Lazio. Il tutto accompagnato da un uso sempre più massiccio e, nell’ultima fase della vita, spesso indiscriminato degli psicofarmaci.
Che cos’è la follia
Dunque, quali conclusioni trarre da questa vicenda, che ci riportino alle riflessioni ispirate dal libro di Franco Rotelli? La prima ha a che vedere con l’essenza stessa della malattia mentale, così come la ritroviamo formulata dallo stesso Basaglia: “Noi diciamo di affrontare la vita, perché la vita contiene salute e malattia” (Lezione/conversazione con gli infermieri nel congedo da Trieste, citazione riportata nell’almanacco), e ancora: “Io ho detto che non so che cosa sia la follia. Può essere tutto o niente. È una condizione umana” (Conferenze brasiliane, citazione riportata nell’almanacco). Una lampante conferma di questa intuizione è la nostra vicenda di fratelli cresciuti nel medesimo ambiente familiare, prossimi di età, contigui per frequentazioni e per abitudini. Tra l’altro mi sono sforzato, anche nel libro, di descrivere il continuo riflettersi della mia “normalità” nella follia di Paolo, e il suo cercare la “normalità” nel rapporto con me. Oggi si sperimentano nuove strade per curare la malattia mentale e forse un giorno arriveremo anche a guarire la schizofrenia. Restano però i confini indistinti tra follia e normalità, e aggiungerei che il continuo passaggio da una dimensione all’altra è ciò che caratterizza più di ogni altra cosa l’epoca in cui viviamo.
La riapertura strisciante dei manicomi
Una seconda riflessione ha a che vedere con ciò che è successo in Italia dopo la chiusura dei manicomi. Il libro di Franco Rotelli testimonia una stagione felice anche nel “dopo Basaglia”, con i servizi sul territorio, le cooperative sociali, le esperienze più positive di psichiatria alternativa e di “recovery”. Ma non dappertutto è andata così. Spesso le strutture alternative al manicomio si sono rivelate insufficienti e inadeguate, specie nel centro-sud. I servizi psichiatrici – se si escludono gli Spdc, i servizi psichiatrici di diagnosi e cura diffusi nel territorio, con qualche rara “eccellenza” – sono stati oggetto di tagli e privatizzazioni più o meno striscianti, dando spazio alla speculazione privata sulla pelle dei malati, spesso alla riapertura mascherata di piccoli manicomi decentrati che operano con la stessa logica del vecchio ospedale. Su tutto continua a pesare il disinteresse della politica per l’emergenza psichiatrica, che tra l’altro riguarda oggi non solo le vecchie categorie di malati ma anche nuovi soggetti esposti al disagio mentale e vulnerabili, a cominciare dai giovani emarginati per finire agli anziani soli e agli immigrati. Pesano i tagli alla sanità prodotti dalla crisi economica e da decenni di mala gestione. Pesano l’inadeguatezza del personale e la sua impreparazione, che spesso è all’origine di un uso improprio e massiccio degli psicofarmaci (i quali dovrebbero essere usati con raziocinio e non come soluzione di comodo, ad uso degli infermieri e dei medici). Pesa infine lo stigma duro a morire, alimentato da quella parte di opinione pubblica che non si è mai rassegnata alla chiusura dei manicomi. E che rimpiange, trovando una sponda in certi politici, i bei tempi in cui i matti erano chiusi in manicomio e i sani non dovevano confrontarsi ogni giorno con la parte malata di loro stessi.