13 Ott La lezione tradita di Franco Basaglia
La Repubblica, 7 ottobre 2019
di Luigi Manconi e Valentina Calderone
La critica letteraria sa bene, e da tempo, quanto sia futile e profondamente errata la contrapposizione tra le opere “poliziesche” e quelle “filosofiche” di Georges Simenon. In altri termini, il perfetto meccanismo dell’investigazione criminale, che domina, lento e implacabile, la scrittura noir di Simenon è lo stesso, proprio lo stesso, che accompagna la ricerca psicologica nei romanzi “senza Maigret”: tra questi Lettera al mio giudice, Le Finestre di Fronte, Le persiane verdi, Il fondo della Bottiglia e L’uomo che guardava passare i treni (tutti editi in Italia da Adelphi e tutti in corso di pubblicazione come audiolibri presso la Emons). Quest’ultimo coltiva un tema assai caro a Simenon, la follia: e lo fa attraverso una procedura che ha la qualità e l’esattezza della migliore analisi clinica e di quella eziologica. Il senso del percorso umano del protagonista, Kees Popinga, sembra quello che si ritrova nei titoli della manualistica positivista ottocentesca. Quelli del tipo “Come un uomo normale può diventare pazzo”.
Il tema del romanzo è proprio la discesa all’inferno della pazzia, osservata attraverso i successivi stadi e passaggi, seguendo un tortuoso percorso che corrisponde alla toponomastica della città di Parigi, lungo un itinerario dettagliatamente descritto di luoghi, situazioni e persone. Qui la scrittura diventa magistralmente “fisica”, accompagnando i mutamenti della mente e della sfera emotiva di Popinga e quelli del suo corpo, del suo abbigliamento, dei suoi gesti, dei suoi riti e dei suoi tick. Per questo, e sapendo quanto sia scandaloso l’accostamento tra due personalità di natura così diversa e di orientamento, per così dire, politico addirittura opposto, possiamo definire, ignorando la cronologia, “L’uomo che guardava passare i treni” un testo basagliano. In particolare, il Franco Basaglia delle “Conferenze brasiliane”, riedito da Cortina nel 2018. Il nostro, lo sappiamo, è poco più che un pretesto, e, tuttavia, evoca anche una questione di stile: la saggistica scabra di Basaglia richiama il nitore del raccontare di Simenon (e non sappiamo, purtroppo, se quel lettore onnivoro che fu il primo abbia mai letto il secondo).
In ogni caso, i racconti e i romanzi di Simenon dove si parla di folli, si fermano evidentemente, davanti ai cancelli dei luoghi deputati a contenerli, quei folli. All’interno di essi, dagli antichi manicomi alle attuali Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), il problema della violenza è sempre presente, circola e si perpetua, a partire dalla questione detta, appunto, della contenzione (meccanica o farmacologica): fino alle forme più diverse di autolesionismo. Sullo sfondo la minaccia sempre ricorrente e, fino a qualche settimana fa, agitata, manco a dirlo, dall’allora Ministro dell’interno, Matteo Salvini, della riapertura degli Ospedali psichiatrici. La motivazione addotta era quella di un’asserita “esplosione di aggressioni per colpa di malati psichiatrici”, di cui non si ha traccia nemmeno nei più cupi mattinali di questura. Per la verità poco spazio ha trovato nell’intero sistema dei media, anche la notizia della tragica fine della diciannovenne Elena Casetto, lo scorso 13 Agosto, bruciata viva all’interno del reparto psichiatrico dell’ospedale di Bergamo. La ragazza era stata legata al letto qualche ora prima – a seguito di un tentativo di suicidio, pare – e la sua stanza era stata chiusa a chiave. Le fiamme sono divampate – solo un processo potrà dirci per quale causa – e nessuno è riuscito a salvarla. Il reparto era privo di adeguate misure antincendio, perché – questa la giustificazione – i necessari bocchettoni al soffitto avrebbero potuto essere utilizzati per legarvi una corda e tentare il suicidio. La logica perversa per cui la “sicurezza” da garantire a una persona affetta da disturbo mentale non prevede i minimi dispositivi che invece valgono per il resto della popolazione, spiega bene quanto sia ancora lunga la strada da fare.
Proprio in quelle Conferenze prima citate, Basaglia ci aiuta a capire quale sia la profonda differenza tra coercizione e cura e perché sia fondamentale radicare questa consapevolezza e trasformarla in azione dentro i luoghi destinati alla presa in carico dei pazienti e dentro la società tutta.
La morte di Elena Casetto e quella, avvenuta il 4 Agosto del 2009, nel Servizio Psichiatrico di diagnosi e cura dell’ospedale di Vallo della Lucania, di Franco Mastrogiovanni, anch’egli crocefisso a un letto, ci ricorda crudelmente la persistenza del ricorso alla contenzione meccanica in Italia. La vicenda di Mastrogiovanni, raccontata dal durissimo e straziante film di Costanza Quatriglio, 87 Ore, ha visto la condanna definitiva di sei medici e undici infermieri per reati come il sequestro di persona. E ha registrato l’affermazione inequivocabile della Cassazione, per la quale il ricorso al letto di contenzione non è mai una misura terapeutica. Nel corso dei dieci anni trascorsi dalla morte di Mastrogiovanni a quella della Casetto, altri episodi simili si sono verificati. Per una singolare coincidenza, ancora ad Agosto (del 2015), moriva a Torino Andrea Soldi durante un trattamento sanitario obbligatorio (Tso): e il Tribunale di quella città ha condannato in primo grado per omicidio colposo quanti ne sono stati ritenuti responsabili.
Per approfondire il quadro complessivo in cui si trova oggi la politica della salute mentale nel nostro paese, è assai utile un volume di Antonio Esposito, “Le scarpe dei matti. Pratiche discorsive, normative e dispositivi psichiatrici in Italia”, pubblicato quest’anno da Ad est dell’equatore. Il libro tratta degli oltre 110 anni trascorsi dall’istituzione dei manicomi (decreto regio del 1904), passando per il movimento civile, culturale e politico che ha portato alla loro abolizione grazie alla riforma della psichiatria ispirata da Basaglia e diventata legge nel 1978. Fino alla sentenza della Cassazione sulla morte di Mastrogiovanni. Certo, non bastano le parole di quest’ultima (“la contenzione meccanica non è un atto medico”), perché la pratica di legare i pazienti a un letto, polsi e caviglie stretti dentro lacci e cinghie, possa dirsi abolita. Al contrario. La contenzione è talmente frequente che il Consiglio nazionale di Bioetica nel 2015 ha sentito l’esigenza di pubblicare delle Raccomandazioni; e numerose associazioni si sono unite nella promozione di una campagna, “…e tu slegalo subito” (frase attribuita a Basaglia), che ne chiede la totale abolizione.
Infine, per tornare alla stretta attualità e all’attuale fase della vita pubblica, compito di qualsiasi sinistra, come dice Mark Fisher in “Realismo capitalista” (Produzioni Nero 2018), è quello di “ri-politicizzare la malattia mentale”. Il che non vuol dire in alcun modo giustificare la pratica di lottizzazione delle Asl, bensì il suo contrario: considerare la sostanza sociale ed economica del disturbo psichico con la stessa attenzione che si dedica alle componenti fisiologiche. Ricordiamo che Franco Basaglia non ha mai affermato che “la malattia mentale non esiste” – come tuttora sciattamente si dice e si scrive – e che la sua più grande lezione consiste nell’averne analizzato insieme cause ambientali e cause organiche. Da qui si deve ripartire.