24 Mar Legare si può ! (?) Le linee di indirizzo dell’ASUR Marche sulla contenzione meccanica
www.sossanita, di Luigi Benevelli
Il saper “fare a meno delle contenzioni” deve diventare parametro prioritario della valutazione di qualità dei servizi e dei conseguenti riconoscimenti “aziendali”. Non abbiamo bisogno di protocolli nazionali, regionali o aziendali circa il “saper legare bene”, ma di programmi di formazione di tutti gli operatori della salute mentale per imparare i comportamenti atti a fare a meno di contenzioni, isolamento e “porte chiuse”.
L’Azienda Sanitaria Unica Regionale (ASUR) delle Marche ha adottato nel novembre 2018 scorso le Linee guida ed istruzioni operative circa interventi sanitari di contenzione meccanica in psichiatria, in cui il legare i pazienti è definita “atto sanitario assistenziale”, “indispensabile”, da applicare come ultima ratio per il minor tempo possibile, validato da una autorevole letteratura scientifica. Nella bibliografia, a parte alcuni documenti dell’OMS, del Consiglio d’Europa, del Comitato Nazionale per la Bioetica, compaiono per lo più testi della letteratura psichiatrica anglosassone. Manca ogni riferimento alle esperienze del Club SPDC no restraint e al dibattito in corso in Italia sul versante assistenziale, giuridico e costituzionale.
Di cosa parliamo?
La testimonianza di John Perceval (1803-1876) dal XIX secolo ci aiuta ad aprire la riflessione:
“Provate a legare a letto un giovane attivo nel fisico, nella mente e nell’immaginazione, mani e piedi per un paio di settimane, imbottitelo di medicinali, brodaglie, clisteri, e quand’è ridotto all’estremo della debilitazione nervosa, e il suo squilibrio mentale è pienamente consolidato, ammanettatelo per ventiquattr’ore. […]Impeditegli ogni conversazione con i suoi superiori, ogni comunicazione con i suoi amici, ogni comprensione dei loro motivi, ogni visione della sana e corretta società! […]Mostrate sempre lo stesso assoluto disprezzo per la sua volontà o inclinazione; fate tutto ciò che è in vostro potere per cancellare ogni germe di rispetto di sé che può rimanere o sorgere nel suo petto, ammanettatelo come un criminale, esponetelo al ridicolo e vietategli ogni occasione per appartarsi e riflettere da sé, e che cosa vi aspettate? E di chi siete voi gli agenti, di Dio o di Satana? E quale bene potete ragionevolmente aspettarvi? (John Perceval (1803-1876), A narrative of the treatment received by a Gentleman, during a state of mental derangement, citato in: Roy Porter, Storia sociale della follia, Garzanti, Milano, pp. 208-209, 1991)
Le contenzioni, l’isolamento e le “porte chiuse” nel trattamento dei pazienti psichiatrici costituiscono da sempre un problema inquietante. Tali pratiche, diffuse negli asili per folli del mondo, perdurano in Italia, specie negli SPDC. Nel 1904, a ridosso dell’approvazione della legge manicomiale n. 36, il XII Congresso di Genova della Società Freniatrica Italiana approvò all’unanimità un ordine del giorno in cui si deplorava “che in molti Manicomi d’Italia, per necessità di ambiente o di personale di servizio, si faccia ancora uso dei mezzi di contenzione meccanica nelle custodia degli alienati”, e faceva voti “perché tutti i Soci si impegnino a provocare, con ogni loro energia, dalle Amministrazioni quei provvedimenti, che nei vari casi speciali sono necessari a toglierli; e che, col provvedere alla diminuzione dell’affollamento dei Manicomi, coll’aumento di numero dei Medici e degli Infermieri, colla elevazione intellettuale e morale di questi ultimi, con una migliore disposizione e ripartizione dei locali […] si attui anche in Italia, come ormai nella maggior parte delle altre Nazioni, l’abolizione dei mezzi di coercizione per gli alienati”.
Nei manicomi italiani le porte dei reparti continuarono a rimanere chiuse e le persone ricoverate legate per ore, giorni, mesi. Contenzione e isolamento erano consentite, purché autorizzate dal medico, a norma dell’art. 60 del “Regolamento sui manicomi e gli alienati” (R.D. 16 agosto 1909, n. 615) che recitava: ” Nei manicomi debbono essere aboliti o ridotti ai casi assolutamente eccezionali i mezzi di coercizione degli infermi e non possono essere usati se non con l’autorizzazione scritta del Direttore o di un medico dell’istituto. Tale autorizzazione deve indicare la natura e la durata del mezzo di coercizione. L’autorizzazione indebita dell’uso di detti mezzi rende passibili coloro che ne sono responsabili di una pena pecuniaria da L. 300 a L. 1000, senza pregiudizio delle maggiori pene comminate dal Codice Penale. L’uso dei mezzi di coercizione è vietato nelle case di cura private.” L’argomento, poco e niente presente nei trattati di psichiatria, fu invece svolto, con diligenza, nei corsi organizzati dalle Province che rilasciavano il patentino di Infermiere manicomiale. Oggi lo troviamo nei Protocolli che prescrivono i comportamenti degli operatori degli SPDC.
Perché legare i pazienti psichiatrici e chi decide di legare?
Nel manicomio, le pedagogie istituzionali (terapia morale), attraverso un sistema di premi e punizioni, erano volte ad instillare nei ricoverati l’autodisciplina entro un regime paternalistico ed assoluto, a capo del quale stava il medico direttore. Ma, anche dopo la legge 180, restano pur sempre le situazioni “critiche”nelle quali la scelta del che fare appartiene più agli infermieri che ai medici: è lo staff infermieristico che, sulla base delle esperienze personali, delle pratiche e delle culture professionali vigenti nelle singole istituzioni, a fare la previsione che quel paziente lì, in quella situazione data, potrà assumere un comportamento violento e che la situazione potrebbe sfuggire di controllo. Infatti si contiene prima che l’aggressività esploda. Al riguardo, si può parlare di veri e propri stereotipi di giudizio, dovuti alle tradizioni della singola istituzione, che, a fronte di una persona etichettata come pericolosa portano a risposte quasi “automatiche” di evitamento o coercizione. Uno studio condotto nei manicomi dello Stato di New York nell’anno 1992 ha evidenziato come l’uso delle contenzioni e dell’isolamento variasse grandemente da struttura a struttura e fosse difficilmente correlabile con le differenze di stato clinico dei pazienti: la diversità nelle pratiche era attribuibile piuttosto ai diversi approcci con cui nelle singole istituzioni si sceglieva di legare o meno (Nancy R., Rappaport M., Use of restraint and seclusion in psychiatric settings in New York State, Psychiatr. Serv, 46, 10, 1032-37, (1995).
La responsabilità, quindi, appartiene ad uno staff che ha una sua visione delle possibili scelte, a partire da quelle meno restrittive, da adottare quando il paziente diventa confuso, irritabile, impaurito e può perdere il controllo.
Anche governi nazionali, agenzie come l’OMS, bioeticisti, giuristi si sono andati misurando con il problema. Cito:
– La dichiarazione conclusiva della Conferenza di Helsinki dei Ministri della Sanità dei 52 Stati della Regione Europea OMS (2005) e la Risoluzione Bowis del Parlamento Europeo (2006) che hanno richiamato al rispetto dei diritti umani delle persone malate di mente, fra cui fondamentale è quello all’autonomia, fino a chiedere ai governi di “introdurre o rafforzare leggi o regolamenti che garantiscano gli standard di cura ponendo fine agli interventi inumani e degradanti”. Quanto alla contenzione, la Risoluzione afferma che “vada evitata qualsiasi forma di restrizione della libertà personale, in particolar modo le contenzioni, per le quali sono necessari il monitoraggio, il controllo e la vigilanza delle istituzioni democratiche, a garanzia dei diritti della persona”. Ancora giudica “che il ricorso alla forza sia controproducente, così come la somministrazione coatta dei Farmaci” e raccomanda che l’eventuale somministrazione coatta avvenga con la convalida dell’Autorità civile. Questi documenti sottolineano il legame fra efficacia terapeutica e rispetto della dignità della persona per cui il mancato rispetto dei diritti è anche fattore di aggravamento della patologia psichica. Di qui il nesso fra diritto all’autonomia della persona e diritto a ricevere cure appropriate: l’autonomia è volano di un intervento terapeutico efficace. Per non legare ci sono motivi quindi di natura etica, e insieme di sicurezza, di prevenzione e di buon governo dei servizi; la gestione non violenta e non coercitiva elimina il clima di paura per pazienti e per operatori, riduce lo stigma. Ci sono ragioni terapeutiche: la persona legata si agita di più , si richiedono dosi più alte di sedativi, peggiora lo stato di confusione del paziente, si riduce la comunicazione fra la persona legata e lo staff. Queste conoscenze sono antiche: lo psichiatra John Conolly nel 1856 scriveva: “Se si permette che mani e piedi vengano legati, in breve si riscontrerà nel paziente un totale processo di regressione e si darà l’avvio a ogni genere di trascuratezza e tirannia”, “fino a che la repressione diventerà l’abituale sostituto dell’attenzione, della pazienza, della tolleranza e della gestione corretta” (John Connolly (1794-1866) psichiatra inglese di origine irlandese, abolì l’uso dei mezzi di contenzione dei pazienti nel manicomio di Hanwell dove aveva cominciato a lavorare nel 1839. Sulla sua esperienza pubblicò nel 1856 il testo tradotto e pubblicato in Italiano col titolo Il trattamento del malato di mente senza metodi costrittivi, Einaudi, Torino, 1976, con la prefazione di Agostino Pirella). Insomma, il rispetto della persona è misura della qualità professionale degli operatori.
– Il General Report on the CPT’s activities dello European Commitee for the prevention of torture and inhuman or degrading treatment or punishment” (CPT) dell’ottobre 2006 si è occupato delle “Misure di contenzione negli Istituti Psichiatrici per adulti” italiani in molti dei quali “ purtroppo sembra che vi sia un eccessivo ricorso ai mezzi di contenzione”. Il Rapporto illustra le misure da mettere in atto con gradualità per far fronte all’aggressività del paziente: mezzi psicologici (interazione verbale e convinzione), il trattenere il paziente con le mani per breve tempo, tutto questo in alternativa alla sedazione chimica e alla contenzione mediante cinghie. Per ultimo è stigmatizzato l’uso della contenzione come punizione e come intervento pedagogico. All’obiezione che sarebbe la mancanza di personale a favorire l’aumento del ricorso ai mezzi di contenzione si risponde che è proprio l’applicazione dei metodi meccanici a richiedere più personale medico e infermieristico di quanto abitualmente disponibile.
– Il documento “Contenzione fisica in psichiatria: una strategia possibile di prevenzione” del 29 luglio 2010 della Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, pone come obiettivo primario la prevenzione della contenzione nei luoghi di cura come condizione per l’efficacia delle cure: la contenzione è un atto anti terapeutico che rende più difficile la cura.
– Il Comitato Nazionale per la Bioetica ha approvato il Parere La Contenzione: problemi bioetici (23 aprile 2015) nelle cui conclusioni denuncia la generale carenza di attenzione nei confronti della contenzione, e in particolare della contenzione meccanica, ancora “applicata e in forma non straordinaria”. Ciò è giudicato tanto più grave perché, più dei comportamenti e delle caratteristiche dei pazienti, sono l’orientamento e la cultura dei servizi a influire sulla scelta di adottare la contenzione. Il CNB:
– ha ribadito la necessità di superare la contenzione e promuovere una cultura della cura rispettosa dei diritti e della dignità delle persone, in specie le più vulnerabili;
– ha ricordato a chi si prende cura delle persone sofferenti e alle istituzioni sanitarie che l’uso della forza e la contenzione meccanica violano i diritti fondamentali della persona;
– ha raccomandato alle Regioni e al Governo di avviare un severo monitoraggio del fenomeno e di riservare alle associazioni di familiari, un ruolo di sorveglianza e di prevenzione;
– ha sollecitato la stesura di programmi finalizzati al superamento della contenzione, agendo sui modelli organizzativi dei servizi e sulla formazione del personale.
Legare non è lecito
Ma al di là di tutto questo, legare un paziente non è lecito. L’articolo 13 della Costituzione ai commi 1, 2 e 4 recita: La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione,di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà.
Secondo il giudice Francesco Maisto il discorso sui diritti è tanto delicato e denso di conseguenze che non può e non deve essere contaminato da quello organizzativo o da quello sulle finalità dell’istituzione: Nel conflitto fra libertà e coercizione nell’esercizio del diritto alla salute, la regola della Costituzione l’autodeterminazione.
Da ultimo, la Sentenza Corte di Cassazione del novembre 2018 nel processo per la morte di Mastrogiovanni nell’SPDC di Vallo di Lucania ha respinto la tesi che la contenzione fisica sarebbe un “atto medico” che risponderebbe a finalità di tutela della salute e dell’incolumità fisica del paziente e sarebbe funzionale alla cura del paziente psichiatrico. Gli imputati avevano invocato l’operatività della c.d. “scriminante costituzionale” dell’art. 32 Cost., che renderebbe lecito la contenzione in quanto rientrante nell’attività medico-sanitaria. Secondo la Cassazione, l’”atto medico ” gode di una diretta copertura costituzionale non perché frutto della decisione di un medico, ma in quanto caratterizzato da una finalità terapeutica. È quindi la finalità di realizzare un beneficio per la salute, bene tutelato dall’art. 32 della Costituzione, che consente di fornire copertura costituzionale all’atto medico. La contenzione meccanica non rientra in nessuna di tali categorie, trattandosi di un presidio restrittivo della libertà personale che non ha né una finalità curativa né produce l’effetto di migliorare le condizioni di salute del paziente – anzi, può concretamente provocare, se non utilizzato con le dovute cautele, lesioni anche gravi all’organismo.
Infine, è possibile non legare mai i pazienti come testimoniano le esperienze, il lavoro e la proposta del Club SPDC no restraint. Legare i pazienti non riguarda tanto i singoli casi, quanto il clima più globale degli interventi sanitari, le scelte e le impostazioni terapeutiche di base e, anche, lo stato d’animo dell’operatore. Questi, prima di tutto, deve essere egli stesso non legato a schemi precostituiti e ad abitudini rigide e tramandate; deve sapere riconoscere il senso del suo operare; senza rifugiarsi nell’evitamento, deve essere capace di coinvolgere, quando sia necessario, altre agenzie come ad esempio 113, Vigili Urbani, 118, Tribunale. Il lavoro di liaison con tali agenzie consente preziose ricadute favorevoli nelle situazioni più critiche.
Alcune conclusioni
– In epoca pre-psicofarmacologica è stato possibile assistere i pazienti psichiatrici senza legarli, mentre l’ingresso degli psicofarmaci nei trattamenti psichiatrici non ha eliminato le contenzioni, l’isolamento, le porte chiuse. Nemmeno la chiusura dei manicomi ha eliminato tali pratiche. Situazioni simili dal punto di vista clinico e dei comportamenti della persona ricoverata trovano risposta diversa a seconda dei contesti istituzionali e degli operatori.
– Tenere le porte dei reparti chiuse a chiave, legare le persone, tenerle in isolamento sono scelte che dipendono dai contesti strutturali (vivibilità degli spazi di vita per i pazienti e di lavoro per gli operatori, numero degli operatori) e dalle culture professionali locali, dalle caratteristiche delle relazioni interpersonali e di potere all’interno delle squadre che si avvicendano nei turni di servizio, dai rapporti fra medici e non-medici negli staff.
– È possibile ridurre ed eliminare il ricorso alle contenzioni quando il problema sia portato alla luce, riconosciuto come un segnale di allarme e si decida di affrontarlo seriamente.
– Non è accettabile un “federalismo” malamente inteso, nel quale siano possibili approcci alla questione delle contenzioni come quello della deliberazione della Regione Marche. Il saper “fare a meno delle contenzioni” deve diventare parametro prioritario della valutazione di qualità dei servizi e dei conseguenti riconoscimenti “aziendali”. Non abbiamo bisogno di protocolli nazionali, regionali o aziendali circa il “saper legare bene”, ma di programmi di formazione di tutti gli operatori della salute mentale per imparare i comportamenti atti a fare a meno di contenzioni, isolamento e “porte chiuse”. Non legare è indicatore molto sensibile di un clima di lavoro rispettoso della dignità di tutti, operatori e pazienti; della professionalità di infermieri e medici; di buone e fluide relazioni fra reparto e l’organizzazione complessiva dell’Ospedale Generale, dai reparti di degenza al Pronto Soccorso.