E Tu Slegalo Subito | Il caso di Elena Casetto e la psichiatria che ha dimenticato Basaglia
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Il caso di Elena Casetto e la psichiatria che ha dimenticato Basaglia

Il caso di Elena Casetto e la psichiatria che ha dimenticato Basaglia

È morta carbonizzata durante un incendio in ospedale perché era legata al letto, metodo di coercizione violento e spesso inutile. Ma questa è solo la punta dell’iceberg di un sistema che sta collassando.

Un articolo del 18 gennaio 2020 di Adriana Belotti su Lettera43

Qualche giorno prima di ferragosto, mentre mi divertivo al mare con gli amici, Elena Casetto, diciannove anni, moriva carbonizzata in un incendio nel reparto di psichiatria di Bergamo, la mia città natale. Pare ormai accertato che le fiamme siano partite proprio dalla stanza in cui la ragazza era stata sedata e «contenuta». «Contenuta». Il linguaggio psichiatrico è sempre così squisitamente politically correct. Noi che invece non lo siamo o perlomeno cerchiamo di non esserlo, preferiamo scrivere che a Elena, a fronte – scrive la stampa – di un forte stato di agitazione – sono stati somministrati dei sedativi ed è stata legata al letto.

Quando è scattato l’allarme antincendio, nel rispetto delle procedure di evacuazione, gli infermieri hanno aperto la porta della sua stanza per portarla in salvo ma, nonostante l’uso dell’estintore, non è stato possibile raggiungerla in tempo. Sembra che la giovane avesse con sé un accendino. L’Azienda sanitaria ha parlato di suicidio. Un’altra possibilità, si legge sulla stampa locale, è che abbia usato l’accendino per liberarsi dalle fasce di contenzione.

Ora il pubblico ministero sta indagando per capire la dinamica dei fatti e stabilire le responsabilità. Ai fini della nostra riflessione poco importa comprendere ciò che ha causato il divampare dell’incendio perché la tragedia ha avuto inizio molto prima del dilagare delle fiamme. Perché nel terzo millennio scegliamo ancora di usare la pratica aberrante e profondamente inumana di legare una persona che sta male? La sofferenza si accoglie e si gestisce, non si imbavaglia.

LA LEZIONE DI BASAGLIA SEMBRA ESSERE DIMENTICATA

Senza paura di abbandonare il politically correct esplicitiamolo una volta per tutte: legare una persona ad un letto è commettere deliberatamente una violenza. Senza se e senza ma. E giustificare questo crimine con la teoria della pericolosità per se stessi e per gli altri è una scusa abusata in ambito medico ed è ora di tacciarla pubblicamente come inammissibile. Non perché non sia vero il fatto che a volte l’essere umano possa compiere azioni potenzialmente nocive contro di sé e/o i suoi simili ma in quanto immobilizzare una persona contro la sua volontà può portare a conseguenze altrettanto devastanti. E la drammatica morte di Elena ne è solo un esempio: forse, se avesse avuto mani e piedi liberi dai legacci, avrebbe potuto salvarsi.

Ma che la storia non insegna l’aveva già capito Manzoni due secoli fa. Non è poi trascorso molto tempo dagli orrori praticati nei manicomi. In Italia li abbiamo chiusi poco più di quarant’anni fa. Liberando quelli che io chiamo “matti”, Basaglia e tutto il movimento politico e culturale che l’ha accompagnato (ricordiamo lui ma sono stati molti quelli che hanno creduto e praticato una diversa presa in carico dei “pazienti psichiatrici”, come sono definiti dal modello medico) hanno anche reso visibili agli occhi di tutti le terribili conseguenze di un trattamento spacciato come scientifico ma che in realtà era puro abuso di potere su persone spesso ai margini della società perché ritenute devianti. Letti di contenzione, gabbie, elettroshock. E anche coercizioni più sottili ma altrettanto lesive della dignità umana.

LA REGOLAMENTAZIONE DEI CASI PSICHATRICI È ANCORA LACUNOSA
Non ricordiamo niente? Evidentemente no, è finito tutto nel calderone dell’oblio. Ma ci sono anche tragedie più recenti, persone morte “di contenzione fisica” nel nuovo millennio. La regolamentazione a livello legale di questo metodo di coercizione dopo la chiusura dei manicomi è molto complessa, lacunosa e affidata soprattutto a una serie di pronunce della Corte di Cassazione e ai codici deontologici di alcune professioni.

Per farci un’idea il nuovo codice deontologico delle professioni infermieristiche (Fnopi, 2019) stabilisce che: «L’Infermiere riconosce che la contenzione non è atto terapeutico. Essa ha esclusivamente carattere cautelare di natura eccezionale e temporanea […]». Dovrebbe quindi essere usata solo come extrema ratio e «[…] monitorata nel corso del tempo […]» ma chissà se davvero succede così nei reparti di psichiatria.

A questo delicato tema sarà dedicato un incontro organizzato dall’Unione Regionale Associazioni per la Salute Mentale Lombardia e il Forum delle Associazioni per la Salute Mentale di Bergamo che si terrà nella città lombarda il prossimo 13 febbraio. Affrontare l’argomento è urgente ma la contenzione fisica è solo la punta dell’iceberg di un sistema di presa in carico degli utenti dei servizi di salute mentale che davvero sembra andare in fiamme.

L’ABUSO DI PSICOFARMACI, NUOVO METODO DI COERCIZIONE
Le nuove camicie di forza della psichiatria sono gli psicofarmaci di cui spessissimo in ambito psichiatrico si abusa non senza conseguenze sulla salute di chi li assume. Penso – e con me un’intera corrente di medici che abbraccia i principi dell’antipsichiatria – che gli psicofarmaci dovrebbero essere utilizzati con parsimonia, solo nelle situazioni emergenziali e con l’obiettivo di farne un uso temporaneo. Questo perché possono creare dipendenza, assuefazione e molti altri effetti collaterali, primo tra tutti l’annichilimento di chi li assume. Invece spesso ne viene fatto un uso spropositato. Perché? Il motivo è che vengono usati come tampone per sedare momentaneamente la sofferenza delle persone.

Ma viene anche utilizzato per nascondere le falle di un sistema – in generale quello sanitario e nello specifico quello relativo alla salute mentale – che sta inesorabilmente collassando. Se è vero infatti che l’uso della coercizione – fisica o farmacologica che sia – ha una forte matrice culturale, è altrettanto innegabile che le strutture socio-sanitarie ospedaliere e residenziali abbiano oggi carenze strutturali e gestionali spaventose. Manca il personale che dovrebbe prendere in carico gli utenti e i pochi operatori rimasti – che siano infermieri, Oss o educatori, sono costretti a fare turni di lavoro massacranti. È ovvio che in queste condizioni disastrose chi lavora in trincea si trova a dover gestire una situazione di emergenza costante e gli unici interventi possibili sono appunto di tipo contenitivo.

OPERATORI IN CARENZA DI ORGANICO COSTRETTI A TURNI MASSACRANTI
Nicola Draoli, consigliere della Federazione nazionale degli infermieri dichiara che in Italia mancano dai 50 ai 70 mila infermieri su un organico di 450 mila. Un amico lavora come operatore socio-sanitario in una comunità per utenti di sesso maschile del Dipartimento di Salute Mentale di Trieste. Mi racconta che negli ultimi anni lui e i suoi colleghi sono costretti a turni di lavoro pesantissimi (e si tratta di un lavoro psicologicamente e, spesso anche fisicamente, molto impegnativo) a causa di riduzioni del personale. Inoltre – mi spiega – anche la composizione degli ospiti è cambiata. Alcuni sono deceduti, altri invecchiando sono diventati sedentari. Utenti più giovani sono subentrati a riempire i posti vacanti ma la scarsità del personale non consente più di pianificare attività ad hoc per loro.

Avrebbero bisogno di uscire dalla struttura – e chi sarebbe contento di trascorrere intere giornate in casa – ma il numero degli operatori è quasi sempre insufficiente per permetterlo (dovendo essere comunque sempre accompagnati da un professionista) quindi spesso rimangono in comunità con gli altri. Uno di loro ha spesso crisi violente: voi pensate che non sia normale, essendo costretto a stare rinchiuso in casa per giornate intere di seguito? Tale è la situazione. Ma ovviamente, in questo come in molti altri casi, è molto più comodo definire “da psichiatria” degli esseri umani piuttosto che riconoscere la follia dell’istituzione psichiatrica.