09 Mag Chi si occupa oggi dei malati di mente
Una delle foto che Gianni Berengo Gardin scattò tra il 1968 e il 1969 in alcuni istituti psichiatrici italiani. Quel fotoreportage è oggi un libro e una mostra: “Manicomi. Psichiatria e antipsichiatria nelle immagini degli anni Settanta”, alla Sala delle Arti di Collegno (To) fino al 20 maggio
Donna Moderna, 4 maggio 2018
di Isabella Colombo
Il 13 maggio 1978 veniva approvata la storica norma che chiudeva i manicomi. Ma le cure psichiatriche nel nostro Paese possono, e devono, migliorare. In alcune strutture i “matti” sono ancora legati al letto e sottoposti a elettroshock. Per fortuna esistono anche progetti di assistenza e inclusione che funzionano (e vanno imitati)
Erano 76 i manicomi in Italia chiusi nel 1978 da quella che è passata alla storia come Legge Basaglia. La norma fissò i principi della moderna psichiatria, ma non spiegò come traghettare i “matti” dagli ospedali-ghetto alla società. «Una legge bella e monca, che in alcuni luoghi ha generato strutture dove una vita dignitosa e persino la guarigione sono possibili, ma in altri ha determinato situazioni simili ai vecchi manicomi» spiega Gisella Trincas, presidente dell’Unasam, Unione nazionale delle associazioni per la salute mentale. E così oggi i 600.000 malati nel nostro Paese (dato Unasam) e i loro familiari possono solo sperare di vivere nel posto giusto.
Mancano risorse e personale
La presenza a macchia di leopardo dell’assistenza psichiatrica è dovuta al fatto che la legge 180 non fu accompagnata da linee guida né da risorse apposite. Spiega Trincas: «La rete dei servizi che sostituiscono i manicomi è stata realizzata con tempi ed esiti diversi nelle varie Regioni, a seconda dei fondi, dei medici e della sensibilità locale». Oggi è costituita da 183 Dsm, i Dipartimenti delle Asl per la salute mentale, articolati in oltre 3.700 strutture: dai Csm per l’assistenza diurna ai servizi residenziali, agli appositi reparti ospedalieri. Ma è una rete bucata. «I fondi sono scarsi: molti centri sono aperti solo poche ore al giorno e in alcune Regioni, come il Lazio, c’è meno della metà del personale necessario» afferma l’esperta. «La conseguenza, per i malati, è la mancanza di percorsi personalizzati di cura, rimpiazzati dall’abuso di psicofarmaci. Questi ultimi sono la nuova forma di immobilizzazione, gabbie chimiche che bloccano ogni volontà. Persino nei giovanissimi assistiamo a un utilizzo eccessivo di Depot, il medicinale a lento rilascio usato per tenere a bada le crisi di schizofrenia». La conseguenza è il rischio di riportare in auge l’elettroshock. «A un certo punto, come avviene per gli antibiotici, l’organismo non risponde più e allora bisogna fare “reset” con le scariche elettriche» spiega Piero Cipriano, psichiatra in vari Spdc, Centri psichiatrici di diagnosi e cura, e autore di Basaglia e le metamorfosi della psichiatria (Eleuthera). In Italia l’elettroshock si pratica ancora in centri pubblici e privati (per esempio a Oristano, Brescia-Montichiari e Pisa), sebbene in misura molto minore rispetto al resto del mondo (circa 300 trattamenti l’anno, secondo il ministero della Salute, contro i 5.000 in Belgio e i 12.000 nel Regno Unito).
Resiste l’idea “pazzo = pericoloso”
Il personale non basta neanche per i controlli delle strutture private convenzionate, dove spesso si ripetono le logiche manicomiali. «Uno degli esempi di degrado è l’Aias, Associazione italiana assistenza spastici, di Decimomannu, in provincia di Cagliari: qui i medici picchiavano i malati e ora sono sotto processo per maltrattamenti» dice Trincas. Ma anche il pubblico ha le sue vergogne, soprattutto negli Spdc degli ospedali, dove arrivano i casi gravi. «Qui ci sono ancora le fasce per legare i pazienti al letto, le sbarre alle finestre e le porte chiuse: tutti presupposti per la perdita della fiducia, che segna la fine di ogni percorso riabilitativo e la perpetuazione del principio “matto uguale pericoloso”» afferma Pietro Cipriano. «Al sistema sanitario le fasce costano meno degli operatori e la legge non le ha mai vietate. Quelli che le usano dicono che in mancanza di personale non si può fare altrimenti. Ma chi lavora nel settore sa bene che spesso un malato viene legato per motivi futili, come un urlo di troppo». Per sensibilizzare i medici e gli operatori sul tema sono nate la rete degli Spdc a porte aperte e una campagna ad hoc, Slegalo subito.
Occorre adottare la filosofia del “fare assieme”
A Trento il mix di medici volenterosi, direttori illuminati e familiari presenti ha permesso la nascita del progetto Ufe, ora replicato in altre città. «Ufe sta per Utenti e familiari esperti» racconta Renzo De Stefani, ex primario del Dsm dove vige la filosofia del “fare assieme”. «Hanno imparato a gestire la malattia e lavorano accanto agli operatori, per accogliere i nuovi pazienti. Perché trovarsi davanti uno che dice “Ti capisco, anche io sento le voci” non è come ingoiare una pasticca». A Trento si sperimentano anche nuove forme di convivenza sociale come “Amici per casa”, progetto che unisce 100 tra malati ed extracomunitari. «Gli stranieri hanno trovato un’abitazione e una famiglia, i malati dei fratelli maggiori cui ispirarsi per gestire la quotidianità» dice De Stefani. L’Emilia Romagna ha finanziato il progetto regionale di teatroterapia, a Vercelli l’Asl promuove la montagnaterapia e in tutta Italia ogni anno si tiene il campionato di calcio tra Dsm. Basaglia avrebbe gradito: «Per poter affrontare veramente la “malattia”» diceva «dovremmo poterla incontrare fuori dalle istituzioni, la cui funzione è quella di etichettare coloro che vi appartengono».
Una rivoluzione terapeutica
«La libertà è terapeutica» è lo slogan che 40 anni fa ha accompagnato la chiusura dei manicomi in Italia. Il 13 maggio 1978 è stata approvata la legge 180, che non nega il disagio psichico ma mette il malato al centro dei percorsi terapeutici. Peppe Dell’Acqua, classe 1947, era un giovane psichiatra quando Franco Basaglia, riformatore della disciplina psichiatrica in Italia, ha iniziato a scardinare i cancelli dei manicomi. Con lui è stato tra i protagonisti di quella rivoluzione partita da Trieste, dove per 17 anni ha diretto il Dipartimento di salute mentale.
Qual è l’eredità della legge 180?
Ha restituito diritti, dignità e cittadinanza a migliaia di uomini e donne fino ad allora rinchiusi negli ospedali psichiatrici. E ha detto basta all’immobilizzazione forzata, proponendo un modello terapeutico che tutto il mondo cerca di replicare.
Cosa resta da fare?
Tanto, perché la Legge 180 va ancora completata. Per esempio, il fatto che costituzionalmente siano stati attribuiti diritti anche ai pazienti psichiatrici non significa che effettivamente ne godano, o che tutti possano accedere a buone cure. In Italia, per esempio, i servizi territoriali non sono uguali dappertutto: ci sono punte di eccellenza e picchi di abbandono. Perciò abbiamo presentato un disegno di legge in Parlamento (il n. 2850, ndr) finalizzato a uniformare i diversi sistemi di salute mentale. Il lavoro di Franco Basaglia non è finito: è una storia senza fine, come lo è la lotta per la democrazia.