20 Apr Audizione della Commissione Diritti Umani al consigliere Daniele Piccione sulla contenzione
Senato della Repubblica. Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani
20 aprile 2016
Seguito dell’indagine conoscitiva sui livelli e i meccanismi di tutela dei diritti umani, vigenti in Italia e nella realtà internazionale: audizione del consigliere Daniele Piccione sulla “contenzione meccanica”
Il presidente MANCONI informa i senatori presenti che con la seduta odierna ha inizio un percorso di indagine dedicato alla contenzione meccanica e che tale esercizio avrà come prossimi passaggi le audizioni di Giovanna Del Giudice e Peppe Dell’Acqua programmate per le prossime settimane. Ricorda che il ciclo di audizioni dedicato alla contenzione meccanica trae spunto dal caso di Antonio Mottola segnalato alla Commissione nel giugno dell’anno scorso che, fortunatamente, ha da poco potuto avere un esito positivo per l’interessato.
Il consigliere Daniele PICCIONE, nel ringraziare per l’opportunità offerta, ricorda che il mezzo di contenzione è definito dall’enciclopedia Treccani quale “fascia o cinghia idonea a limitare i movimenti di persona agitata, che si usa in caso di grave necessità nei reparti di ricovero per pazienti psichiatrici; deve essere utilizzato per il tempo strettamente necessario e sotto controllo medico”. Ne discende che da qui dovrebbe muovere una definizione di contenzione bio-meccanica, cioè realizzata mediante dispositivi, di varia natura, che poiché incidono sulla libertà física di un individuo costituiscono una limitazione della libertà personale ai sensi dell’art. 13 della Costituzione e dell’art. 5 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo.
È possibile distinguere la contenzione bio-meccanica, cioè attuata attraverso strumenti volti a bloccare e immobilizzare l’individuo costringendolo ad una struttura o ad un supporto di una qualche specie dalle forme di contenzione farmacologica, le quali, si caratterizzano per la somministrazione di farmaci di varia natura che riducono grandemente – o anche annichiliscono – la capacità di determinarsi al movimento della persona, affievolendone per lo più lo stato di coscienza e vigilanza.
Non mancano inoltre pratiche contenitive miste, le quali si sostanziano sia dell’una che dell’altra modalità di incisione sulla persona o, anche, ne fanno seguire una all’altra.
Intorno a queste pratiche, largamente diffuse sul territorio nazionale, si pongono non da oggi rilevanti interrogativi. Il primo di questi che, peraltro, dovrebbe considerarsi a tutti gli effetti quello preliminare e determinante, riguarda la liceità della pratica della contenzione. E’ unicamente a tale profilo che sarà dedicato l’intervento all’audizione odierna. Occorre premettere che il documento adottato dal Comitato di bioetica il 23 maggio 2015, si limita a tracciare pochi e limitati elementi utili di indagine dal punto di vista costituzionalistico; e che il Comitato ha evidenziato come la contenzione si riveli, nella prassi, un’autentica “uscita d’emergenza”, fondata sul ribaltamento tra eccezione e regola.
Il dibattito culturale e dottrinario sulle pratiche di contenzione sarebbe di per sé piuttosto facile da riassumere e, forse, persino agevolmente risolvibile in una conclusione netta. Il problema, tuttavia, è perturbato da due modalità di condurre l’analisi che offuscano non poco la limpidezza delle conclusioni finali.
Il primo profilo metodologico in certo modo confondente risiede nell’esaminare il fondamento giuridico della contenzione muovendo da casi limite ed eccezionali. Non di rado, le tesi volte a legittimare la contenzione prendono le mosse, infatti, dalle contenzioni istantanee, cioè dal tipico esempio della persona che viene immobilizzata per evitare che trascenda in atti autolesionistici; oppure, facendo riferimento all’applicazione delle spondine ai letti per lungodegenza geriatrica; o anche citando il caso delle cinture di sicurezza applicabili all’infermo accomodato sulla barella del servizio medico di urgenza. Ancora, viene talvolta evocato il caso in cui a richiedere la contenzione sia lo stesso infermo, così da sostenere che la pratica in sé non sarebbe ipso facto e sempre illecita, invocando casi intrisi di presunte scelte volontarie dell’interessato che la subisce. Infine, si ascolta spesso l’argomento in base al quale il singolo, quando incosciente, può essere assicurato al letto per evitare cadute o danni accidentali a persone o cose, il che sembrerebbe giustificare all’istante la legittimità di atti contenitivi biomeccanici.
Tutta la casistica ricordata, tuttavia, va messa da parte perché in primo luogo si tratta di circostanze in cui o la contenzione biomeccanica è istantanea e si risolve immediatamente, senza alcuna traccia di durata, soltanto per far fronte ad emergenze non prevedibili e non altrimenti fronteggiabili; oppure si viene a determinare in casi nei quali lo stato di coscienza è assente del tutto o in parte, così che la condotta messa in opera supplisce all’autocontrollo, all’equilibrio provvisoriamente venuti meno: in tal caso, tuttavia, la presunta contenzione – se di essa si può parlare – si verifica nello spazio necessario a recuperare la capacità di autodeterminarsi.
Infine va segnalato il caso di scuola di chi chiede di essere contenuto fisicamente, che però non solleva dubbi dal punto di vista giuridico, in quanto la libertà personale ha natura di diritto costituzionale indisponibile e dal punto di vista fattuale, se l’interessato revoca il consenso dovrebbe essere prontamente lasciato libero da qualunque dispositivo meccanico.
Le figure limite non costituiscono in alcun modo il fuoco del problema in esame e non impediscono di analizzare i profili di liceità degli atti di contenzione biomeccanica, attuati contro la volontà del paziente, non istantanei e anzi protratti nella durata, posti in essere con dispositivi di varia natura.
Sono proprio questi ultimi gli atti e le condotte su cui ferve uno strisciante tentativo legittimante. Al riguardo va richiamato il dettato dell’articolo 13 della Costituzione, che dispone che la libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. Solo in casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto. Precisa sempre l’articolo 13 della Costituzione che è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà.
Il secondo comma della disposizione citata fissa le due garanzie essenziali a presidio della libertà del singolo contro “qualsiasi restrizione della libertà personale”: la riserva di legge assoluta; la riserva di giurisdizione che prevede anche la motivazione del provvedimento restrittivo. I casi eccezionali di necessità e urgenza in cui si può limitare la libertà fisica dell’individuo, previsti dal comma successivo dell’articolo 13 Costituzione, sono assistiti da garanzie anche più stringenti, perché postulano l’inversione della sequenza del procedimento; prima l’autorità di pubblica sicurezza, poi la convalida dell’autorità giudiziaria.
L’atto della contenzione non è previsto da alcuna disposizione avente forza di legge nell’ordinamento italiano. Né vi è alcun procedimento legislativamente individuato per provvedervi. Dunque non si tratta affatto di valutare quanto uno schema legale codificato dal diritto sia compatibile con il dettato costituzionale, occorre invece constatare che le condotte di contenzione si rivelano per la loro natura dei meri comportamenti umani, delle condotte non codificate quanto a limiti e garanzie che si sostanziano in una coercizione che determina una degradazione della dignità del singolo.
Contro questa constatazione non ha spazio l’ipotesi, più o meno implicitamente delineata, per cui la Costituzione non avrebbe forza precettiva nel sancire il divieto assoluto di tali condotte, senza un esplicito divieto del legislatore. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 11 del 1956, ha fugato ogni dubbio in proposito, dichiarando l’incostituzionalità dell’istituto pre-repubblicano dell’ammonimento comminato dalle Commissioni prefettizie.
Va ad ogni modo ricordato che nella pratica, e anche da parte di taluni studiosi, si tende a sovrapporre i trattamenti sanitari obbligatori con le condotte coercitive che si risolvono in un’incisione della libertà fisica del singolo. I trattamenti sanitari contro la volontà dell’infermo vennero disciplinati prima dalla 1egge 13 maggio 1978, n. 180 e poi dalla di poco successiva 1egge 23 dicembre 1978, n. 833, istitutiva del Sistema Sanitario Nazionale. La prima legge, comunemente ricordata con il nome di legge Basaglia, ha abrogato l’istituto manicomiale in Italia, contemporaneamente recidendo l’ambiguo legame tra l’infermità di mente e “la pericolosità per sé o per altri”; Si trattava del un retaggio della legge giolittiana del 1904, la quale indicava come presupposti per l’internamento in manicomio, “l’essere pericoloso per sé o per altri o il generare pubblico scandalo”.
Sotto il regno dell’ospedale psichiatrico, non solo le contenzioni nei luoghi di cura erano praticate con un’incidenza quotidiana e assai prolungata, ma una traccia normativa legittimante si riscontrava nell’art. 34 del R.D. n. 615 del 1919 che faceva espresso riferimento al principio per cui, all’interno dei manicomi, non si può ricorrere a mezzi coercitivi se non in casi eccezionali col permesso scritto del medico.
Una disposizione, questa, che è a dirsi abrogata implicitamente dall’entrata in vigore della 1egge n. 180 del 1978. In ogni caso i mezzi di coercizione negli ex manicomi, poi ospedali psichiatrici civili, erano giuridicamente disciplinati. Inoltre, va rilevato che il cosiddetto “registro delle contenzioni” era in realtà uno strumento di garanzia e conoscibilità di una prassi, quella del ricorso alle camicie di forze e alla contenzione biomeccanica, che prima dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana e senza che ancora si intravedessero i prodromi del movimento antimanicomiale, erano ritenute pratiche coessenziali al compito di custodia e neutralizzazione dell’infermo di mente.
Ai sensi degli articoli 33 e ss. della legge n. 833 del 1978, il “trattamento sanitario obbligatorio in degenza ospedaliera presso i servizi psichiatrici di diagnosi e cura, rappresenta una extrema rati. Soprattutto, non può negarsi che lo schema procedurale che dà vita, nei casi eccezionali, al T.S.O. ai sensi dell’art. 35 della più volte citata legge n. 833 del 1978, può giustificare limitazioni della libertà del singolo prevedendone il ricovero coattivo in un Servizio psichiatrico al fine di provvedere a terapie psichiatriche che sia restio ad accettare; ma questo non ammette in alcun modo che l’individuo sia ulteriormente ristretto nella sua libertà fisica da atti di contenzione, posti in essere per controllare o neutralizzarne condotte potenzialmente offensive.
È possibile pertanto concludere che i trattamenti sanitari obbligatori contro la volontà del singolo non giustificano coercizioni innominate, e che non sono previsti dalla legge. E’ possibile concludere inoltre che l’equivoco circa i mezzi coercitivi impliciti nel trattamento psichiatrico contro la volontà del singolo, origina dall’antico schema legale seguito e svolto dal Regolamento manicomiale del 1919. Infine è possibile concludere che le contenzioni meccaniche restano sprovviste di alcun riferimento normativo primario e che a deporre contro la loro liceità è la chiara traccia offerta dall’articolo 13, quarto comma, della Costituzione, secondo il quale, come visto, è punita ogni forma di violenza fisica contro le persone comunque sottoposte a limitazioni della libertà.
Per quanto riguarda il sistema delle cause di giustificazione previste dal sistema penale va poi richiamato in particolare l’articolo 54 del codice penale, concernente lo stato di necessità, secondo cui “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare se od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”.
Alla base dell’operatività della scriminante prevista dall’articolo 54 del codice penale si pone il verificarsi di una condizione di necessità, tale da giustificare una condotta altrimenti illecita. È insito nel concetto stesso di necessità, un accadimento imprevedibile ed eccezionale, tale da non consentire una reazione con mezzi ordinari e legittimi. La scienza costituzionalistica ha dimostrato più volte il nesso diretto da eccezionalità, urgenza, necessità, straordinarietà, che pur integrando termini affatto differenti, concorrono a definire le condizioni limite in cui comportamenti altrimenti che l’ordinamento non considera validi, legittimi o leciti, possono trovare limitato spazio. In assenza di alcuna puntuale previsione di legge, l’area di operatività dell’articolo 54 del codice penale è da ritenersi assai più ristretta di quanto si tende ad immaginare, con riguardo alle pratiche della contenzione. Ad esempio, essa non può operare per le contenzioni programmate, per quelle prolungate, per quelle sproporzionate al rischio che si verifichino condotte lesive o autolesive; non può operare per giustificare malintese e surrettizie funzioni custodiali del paziente; non consentono di sostituire misure meno invadenti che dovrebbero tendere ad evitare danni a persone o cose; non possono trovare spazio quando il fatto sia sproporzionato al pericolo.
Dal punto di vista logico formale oltre che giuridico è necessario diffidare della portata legittimante dell’articolo 54 codice penale, poiché esso non potrà mai intendersi come clausola generale di giustificazione astratta, ma solo come disposizione di chiusura dell’ordinamento per far fronte a casi in cui flette la pretesa punitiva del sistema penale. Può dirsi che l’articolo 54 del codice penale può soltanto in casi puntuali, concreti ed eccezionali, scriminare alcuni degli atti di contenzione definiti in apertura come casi limite; la sua area di operatività, con riferimento alle contenzioni, che non esclude ma conferma il fatto che esse siano da considerarsi atti che ricadono nella sfera del penalmente rilevante; che in nessun caso si può tentare di fondare su tale disposizione una regolamentazione delle contenzioni che si vorrebbe legittime, con un atto non avente forza di legge. L’accertamento del sussistere dei requisiti di applicazione dello stato di necessità spettano sempre e comunque all’autorità giudiziaria e non mai all’autorità amministrativa che tenti di delimitarne o specificarne i contorni prima che la condizione di necessità si verifichi. Occorre infine aggiungere talune brevi considerazioni che esulano dalla disamina costituzionalistica del fenomeno delle contenzioni, ma che da essa in certa misura discendono.
In primo luogo, la Costituzione e la giurisprudenza costituzionale offrono una chiave di lettura assai profonda di tutti gli atti coercitivi compiuti nei riguardi di soggetti deboli, inseriti in dimensioni istituzionalitotalizzanti o, appunto, sottoposti a misure restrittive delle libertà costituzionali.
Non occorre immaginare un intervento legislativo, perché colmare un falso vuoto rischia di divenire esso stesso fattore legittimante, equivoco che renderebbe lecito ciò che non può esserlo, se non in casi eccezionali, tali da confermare spirito e lettera di un impianto costituzionale persino più netto di quel che si vorrebbe nel ricondurre segni di disfavore ad ogni forma di prevaricazione fisica dell’uomo sull’uomo. Semmai sarebbe il caso di rafforzare le garanzie giurisdizionali contro condotte di contenzione biomeccanica che non solo determinano abrasioni della dignità del singolo ma costituiscono indici di crisi nelle prestazioni di assistenza dei servizi territoriali che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici.
Occorrerebbe piuttosto incidere nel concreto vissuto dei servizi sanitari per inverare il dettato degli articoli 13 e 32 della Carta fondamentale, cogliendo, tuttavia, le ragioni profonde per le quali la realtà racconta del proliferare di atti di contenzione all’ombra di luoghi in cui o si riafferma la cultura della sua legittimità, oppure essa è vissuta come un male minore cui non può non ricorrersi; o ancora essa appare come la soluzione più comoda per sciogliere il nodo del rapporto tra i diritti fondamentali di chi vive l’esperienza del disagio e del disturbo mentale e le responsabilità di medici ed operatori che vedono ampliato l’orizzonte delle conseguenze penali, civili ed amministrative del loro difficile operare.
Va rilevato tuttavia che la contenzione prolifera nelle istituzioni in cui più forte rimane lo squilibrio tra i rapporti di potere e che nel suo modo di porsi come fenomeno umano affonda comunque le radici in un atto di sopraffazione del singolo sul suo simile,
Il problema giuridico è di non ammettere la legittimazione di condotte che pongono in lancinante evidenza, nel rapporto tra chi pratica la contenzione e chi la subisce, una caratteristica che Franco Basaglia amava spesso sottolineare, perché si aprissero stridenti contraddizioni nelle prassi e nelle coscienze.
La senatrice SIMEONI (Misto) ricorda i suoi ventuno anni di attività nei servizi di diagnosi e cura sottolineando i passi in avanti compiuti sul piano anche culturale rispetto ad una situazione non felice nella quale le strutture esistenti nel Mezzogiorno erano ancor più penalizzate.
Il senatore ROMANO (Aut (SVP, UV, PATT, UPT)-PSI-MAIE) richiama l’esigenza di affrontare non solo la contenzione meccanica ma anche la contenzione biofarmacologica.
Il senatore MAZZONI (AL-A (MpA)) chiede un approfondimento in ordine alla giurisprudenza della Corte costituzionale, facendo segnatamente riferimento alla sentenza della Corte Costituzionale del 1961.
Il presidente MANCONI, ricorda la ricerca dell’istituto superiore di Sanità che nel 2004 ha certificato che nei servizi psichiatrici di diagnosi e cura la contenzione verrebbe attuata nell’80 per cento dei casi. Ricorda inoltre, con riferimento alla durata della contenzione, i casi di Giuseppe Casu a Cagliari, nel 2006, e di Franco Mastrogiovanni a Vallo della Lucania, nel 2011, che fecero registrare una contenzione della durata rispettivamente di 135 e 87 ore e che portarono alla loro morte.
Il dottor PICCIONE nel confermare l’esperienza della senatrice Simeoni in ordine al miglioramento generale della situazione riguardante la contenzione, sottolinea come la contenzione biofarmacologica abbia implicazioni giuridiche molto diverse rispetto alla contenzione meccanica rilevando che – come giustamente ha inteso mettere in evidenza il senatore Mazzoni – la giurisprudenza della Corte costituzionale meriterebbe un ulteriore approfondimento. I casi richiamati dal presidente Manconi danno conto dell’importanza della indagine che la Commissione per la tutela dei diritti umani si appresta a svolgere che potrà approdare alla indicazione di forme di maggior tutela per le persone che accedono alle strutture più esposte alla pratica della contenzione, vale a dire essenzialmente i servizi psichiatrici di diagnosi e cura e le strutture di lungodegenza geriatrica.
Il presidente MANCONI, ringraziando il consigliere Piccione e i senatori presenti, dichiara conclusa la seduta.
Il seguito dell’indagine conoscitiva è pertanto rinviato.
La seduta termina alle ore 15.